martedì 22 maggio 2012


IL TRENO HA FISCHIATO (1914)


Farneticava.
Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: Frenesia, frenesia.
Encefalite.
Infiammazione della membrana.
Febbre cerebrale .
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale. Morrà? Impazzirà?
Mah! Morire, pare di no...
Ma che dice? che dice?
Sempre la stessa cosa. Farnetica... Povero Belluca!
E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale. Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare. Circoscritto... sì, chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi. Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosi per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale. Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna era venuto con più di mezz'ora di ritardo. Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai. Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. La sera, il capo ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte: E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani. Che significa? aveva allora esclamato il capo ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. Ohé, Belluca! Niente, aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. Il treno, signor Cavaliere. Il treno? Che treno?
- Ha fischiato.
Ma che diavolo dici?
Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare... Il treno?
Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere! Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi. Allora il capo ufficio che quella sera doveva essere il malumore urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.
Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva: Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove? E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite. Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.
Difatti io accolsi in silenzio la notizia. E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi: Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui.
Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: "A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, l'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima.”
Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; I'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto. Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta. Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé. Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo. Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito. Magari! diceva Magari!
Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva. Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva. Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno. Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno. S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte. C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita " impossibile ", tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi... c'erano gli oceani... Ie foreste... E, dunque, lui ora che il mondo gli era rientrato nello spirito poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo. Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo: Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...


La signora Frola e il signor Ponza suo genero
La novella,scritta nel 1915, venne rappresentata in teatro con il titolo Così è (se vi pare) nel 1917
Ma insomma, ve lo figurate? c’è da ammattire sul serio tutti quanti a non poter sapere chi tra i due sia il pazzo, se questa signora Frola o questo signor Ponza, suo genero. Cose che càpitano soltanto a Valdana, città disgraziata, calamìta di tutti i forestieri eccentrici!
Pazza lei o pazzo lui; non c’è via di mezzo: uno dei due dev’esser pazzo per forza. Perché si tratta niente meno che di questo... Ma no, è meglio esporre prima con ordine.
Sono, vi giuro, seriamente costernato dell’angoscia in cui vivono da tre mesi gli abitanti di Valdana, e poco m’importa della signora Frola e del signor Ponza, suo genero. Perché, se è vero che una grave sciagura è loro toccata, non è men vero che uno dei due, almeno, ha avuto la fortuna d’impazzirne e l’altro l’ha ajutato, séguita ad ajutarlo così che non si riesce, ripeto, a sapere quale dei due veramente sia pazzo; e certo una consolazione meglio di questa non se la potevano dare. Ma dico di tenere così, sotto quest’incubo, un’intera cittadinanza, vi par poco? togliendole ogni sostegno al giudizio, per modo che non possa più distinguere tra fantasma e realtà. Un’angoscia, un perpetuo sgomento. Ciascuno si vede davanti, ogni giorno, quei due; li guarda in faccia; sa che uno dei due è pazzo; li studia, li squadra, li spia e, niente! non poter scoprire quale dei due; dove sia il fantasma, dove la realtà. Naturalmente, nasce in ciascuno il sospetto pernicioso che tanto vale allora la realtà quanto il fantasma, e che ogni realtà può benissimo essere un fantasma e viceversa. Vi par poco? Nei panni del signor prefetto, io darei senz’altro, per la salute dell’anima degli abitanti di Valdana, lo sfratto alla signora Frola e al signor Ponza, suo genero.
Ma procediamo con ordine.
Questo signor Ponza arrivò a Valdana or sono tre mesi, segretario di prefettura. Prese alloggio nel casolare nuovo all’uscita del paese, quello che chiamano "il Favo". Lì. All’ultimo piano, un quartierino. Tre finestre che danno sulla campagna, alte, tristi (ché la facciata di là, all’aria di tramontana, su tutti quegli orti pallidi, chi sa perché, benché nuova, s’è tanto intristita) e tre finestre interne, di qua, sul cortile, ove gira la ringhiera del ballatojo diviso da tramezzi a grate. Pendono da quella ringhiera, lassù lassù, tanti panierini pronti a esser calati col cordino a un bisogno.
Nello stesso tempo, però, con maraviglia di tutti, il signor Ponza fissò nel centro della città, e propriamente in Via dei Santi n. 15, un altro quartierino mobigliato di tre camere e cucina. Disse che doveva servire per la suocera, signora Frola. E difatti questa arrivò cinque o sei giorni dopo; e il signor Ponza si recò ad accoglierla, lui solo, alla stazione e la condusse e la lasciò lì, sola.
Ora, via, si capisce che una figliuola, maritandosi, lasci la casa della madre per andare a convivere col marito, anche in un’altra città; ma che questa madre poi, non reggendo a star lontana dalla figliuola, lasci il suo paese, la sua casa, e la segua, e che nella città dove tanto la figliuola quanto lei sono forestiere vada ad abitare in una casa a parte, questo non si capisce più facilmente; o si deve ammettere tra suocera e genero una così forte incompatibilità da rendere proprio impossibile la convivenza, anche in queste condizioni.
Naturalmente a Valdana dapprima si pensò così. E certo chi scapitò per questo nell’opinione di tutti fu il signor Ponza. Della signora Frola, se qualcuno ammise che forse doveva averci anche lei un po’ di colpa, o per scarso compatimento o per qualche caparbietà o intolleranza, tutti considerarono l’amore materno che la traeva appresso alla figliuola, pur condannata a non poterle vivere accanto.
Gran parte ebbe in questa considerazione per la signora Frola e nel concetto che subito del signor Ponza s’impresse nell’animo di tutti, che fosse cioè duro, anzi crudele, anche l’aspetto dei due, bisogna dirlo. Tozzo, senza collo, nero come un africano, con folti capelli ispidi su la fronte bassa, dense e aspre sopracciglia giunte, grossi mustacchi lucidi da questurino, e negli occhi cupi, fissi, quasi senza bianco, un’intensità violenta, esasperata, a stento contenuta, non si sa se di doglia tetra o di dispetto della vista altrui, il signor Ponza non è fatto certamente per conciliarsi la simpatia o la confidenza. Vecchina gracile, pallida, è invece la signora Frola, dai lineamenti fini, nobilissimi, e una aria malinconica, ma d’una malinconia senza peso, vaga e gentile, che non esclude l’affabilità con tutti.
Ora di questa affabilità, naturalissima in lei, la signora Frola ha dato subito prova in città, e subito per essa nell’animo di tutti è cresciuta l’avversione per il signor Ponza; giacché chiaramente è apparsa a ognuno l’indole di lei, non solo mite, remissiva, tollerante, ma anche piena d’indulgente compatimento per il male che il genero le fa; e anche perché s’è venuto a sapere che non basta al signor Ponza relegare in una casa a parte quella povera madre, ma spinge la crudeltà fino a vietarle anche la vista della figliuola.
Se non che, non crudeltà, protesta subito nelle sue visite alle signore di Valdana la signora Frola, ponendo le manine avanti, veramente afflitta che si possa pensare questo di suo genero. E s’affretta a decantarne tutte le virtù, a dirne tutto il bene possibile e immaginabile; quale amore, quante cure, quali attenzioni egli abbia per la figliuola, non solo, ma anche per lei, sì, sì, anche per lei; premuroso, disinteressato... Ah, non crudele, no, per carità! C’è solo questo: che vuole tutta, tutta per sé la mogliettina, il signor Ponza, fino al punto che anche l’amore, che questa deve avere (e l’ammette, come no?) per la sua mamma, vuole che le arrivi non direttamente, ma attraverso lui, per mezzo di lui, ecco. Sì, può parere crudeltà, questa, ma non lo è; è un’altra cosa, un’altra cosa ch’ella, la signora Frola, intende benissimo e si strugge di non sapere esprimere. Natura, ecco... ma no, forse una specie di malattia... come dire? Mio Dio, basta guardarlo negli occhi. Fanno in prima una brutta impressione, forse, quegli occhi; ma dicono tutto a chi, come lei, sappia leggere in essi: la pienezza chiusa, dicono, di tutto un mondo d’amore in lui, nel quale la moglie deve vivere senza mai uscirne minimamente, e nel quale nessun altro, neppure la madre, deve entrare. Gelosia? Sì, forse; ma a voler definire volgarmente questa totalità esclusiva d’amore.
Egoismo? Ma un egoismo che si dà tutto, come un mondo, alla propria donna! Egoismo, in fondo, sarebbe quello di lei a voler forzare questo mondo chiuso d’amore, a volervisi introdurre per forza, quand’ella sa che la figliuola è felice, così adorata... Questo a una madre può bastare! Del resto, non è mica vero ch’ella non la veda, la sua figliuola. Due o tre volte al giorno la vede: entra nel cortile della casa; suona il campanello e subito la sua figliuola s’affaccia di lassù.
– Come stai Tildina?
– Benissimo, mamma. Tu?
– Come Dio vuole, figliuola mia. Giù, giù il panierino!
E nel panierino, sempre due parole di lettera, con le notizie della giornata. Ecco, le basta questo. Dura ormai da quattr’anni questa vita, e ci s’è abituata la signora Frola. Rassegnata, sì. E quasi non ne soffre più.
Com’è facile intendere, questa rassegnazione della signora Frola, quest’abitudine ch’ella dice d’aver fatto al suo martirio, ridondano a carico del signor Ponza, suo genero, tanto più, quanto più ella col suo lungo discorso si affanna a scusarlo.
Con vera indignazione perciò, e anche dirò con paura, le signore di Valdana che hanno ricevuto la prima visita della signora Frola, accolgono il giorno dopo l’annunzio di un’altra visita inattesa, del signor Ponza, che le prega di concedergli due soli minuti d’udienza, per una "doverosa dichiarazione", se non reca loro incomodo.
Affocato in volto, quasi congestionato, con gli occhi più duri e più tetri che mai, un fazzoletto in mano che stride per la sua bianchezza, insieme coi polsini e il colletto della camicia, sul nero della carnagione, del pelame e del vestito, il signor Ponza, asciugandosi di continuo il sudore che gli sgocciola dalla fronte bassa e dalle gote raschiose e violacee, non già per il caldo, ma per la violenza evidentissima dello sforzo che fa su se stesso e per cui anche le grosse mani dalle unghie lunghe gli tremano; in questo e in quel salotto, davanti a quelle signore che lo mirano quasi atterrite, domanda prima se la signora Frola, sua suocera, è stata a visita da loro il giorno avanti; poi, con pena, con sforzo, con agitazione di punto in punto crescenti, se ella ha parlato loro della figliuola e se ha detto che egli le vieta assolutamente di vederla e di salire in casa sua.
Le signore, nel vederlo così agitato, com’è facile immaginare, s’affrettano a rispondergli che la signora Frola, sì, è vero, ha detto loro di quella proibizione di vedere la figlia, ma anche tutto il bene possibile e immaginabile di lui, fino a scusarlo, non solo, ma anche a non dargli nessun’ombra di colpa per quella proibizione stessa.
Se non che, invece di quietarsi, a questa risposta delle signore, il signor Ponza si agita di più; gli occhi gli diventano più duri, più fissi, più tetri; le grosse gocce di sudore più spesse; e alla fine, facendo uno sforzo ancor più violento su se stesso, viene alla sua "dichiarazione doverosa".
La quale è questa, semplicemente: che la signora Frola, poveretta, non pare, ma è pazza.
Pazza da quattro anni, sì. E la sua pazzia consiste appunto nel credere che egli non voglia farle vedere la figliuola. Quale figliuola? È morta, è morta da quattro anni la figliuola: e la signora Frola, appunto per il dolore di questa morte, è impazzita: per fortuna, impazzita, sì, giacché la pazzia è stata per lei lo scampo dal suo disperato dolore. Naturalmente non poteva scamparne, se non così, cioè credendo che non sia vero che la sua figliuola è morta e che sia lui, invece, suo genero, che non vuole più fargliela vedere.
Per puro dovere di carità verso un’infelice, egli, il signor Ponza, seconda da quattro anni, a costo di molti e gravi sacrifici, questa pietosa follia: tiene, con dispendio superiore alle sue forze, due case: una per sé, una per lei; e obbliga la sua seconda moglie, che per fortuna caritatevolmente si presta volentieri, a secondare anche lei questa follia. Ma carità, dovere, ecco, fino a un certo punto: anche per la sua qualità di pubblico funzionario, il signor Ponza non può permettere che si creda di lui, in città, questa cosa crudele e inverosimile: ch’egli cioè, per gelosia o per altro, vieti a una povera madre di vedere la propria figliuola.
Dichiarato questo, il signor Ponza s’inchina innanzi allo sbalordimento delle signore, e va via. Ma questo sbalordimento delle signore non ha neppure il tempo di scemare un po’, che rieccoti la signora Frola con la sua aria dolce di vaga malinconia a domandare scusa se, per causa sua, le buone signore si sono prese qualche spavento per la visita del signor Ponza, suo genero.
E la signora Frola, con la maggior semplicità e naturalezza del mondo, dichiara a sua volta, ma in gran confidenza, per carità! poiché il signor Ponza è un pubblico funzionario, e appunto per questo ella la prima volta s’è astenuta dal dirlo, ma sì, perché questo potrebbe seriamente pregiudicarlo nella carriera; il signor Ponza, poveretto – ottimo, ottimo inappuntabile segretario alla prefettura, compìto, preciso in tutti i suoi atti, in tutti i suoi pensieri, pieno di tante buone qualità – il signor Ponza, poveretto, su quest’unico punto non... non ragiona più, ecco; il pazzo è lui, poveretto; e la sua pazzia consiste appunto in questo: nel credere che sua moglie sia morta da quattro anni e nell’andar dicendo che la pazza è lei, la signora Frola che crede ancora viva la figliuola. No, non lo fa per contestare in certo qual modo innanzi agli altri quella sua gelosia quasi maniaca e quella crudele proibizione a lei di vedere la figliuola, no; crede, crede sul serio il poveretto che sua moglie sia morta e che questa che ha con sé sia una seconda moglie. Caso pietosissimo! Perché veramente col suo troppo amore quest’uomo rischiò in prima di distruggere, d’uccidere la giovane moglietta delicatina, tanto che si dovette sottrargliela di nascosto e chiuderla a insaputa di lui in una casa di salute. Ebbene, il povero uomo, a cui già per quella frenesia d’amore s’era anche gravemente alterato il cervello, ne impazzì; credette che la moglie fosse morta davvero: e questa idea gli si fissò talmente nel cervello, che non ci fu più verso di levargliela, neppure quando, ritornata dopo circa un anno florida come prima, la moglietta gli fu ripresentata. La credette un’altra; tanto che si dovette con l’ajuto di tutti, parenti e amici, simulare un secondo matrimonio, che gli ha ridato pienamente l’equilibrio delle facoltà mentali.
Ora la signora Frola crede d’aver qualche ragione di sospettare che da un pezzo suo genero sia del tutto rientrato in sé e ch’egli finga, finga soltanto di credere che sua moglie sia una seconda moglie, per tenersela così tutta per sé, senza contatto con nessuno, perché forse tuttavia di tanto in tanto gli balena la paura che di nuovo gli possa esser sottratta nascostamente. Ma sì. Come spiegare, se no, tutte le cure, le premure che ha per lei, sua suocera, se veramente egli crede che è una seconda moglie quella che ha con sé? Non dovrebbe sentire l’obbligo di tanti riguardi per una che, di fatto, non sarebbe più sua suocera, è vero? Questo, si badi, la signora Frola lo dice, non per dimostrare ancor meglio che il pazzo è lui; ma per provare anche a se stessa che il suo sospetto è fondato.
– E intanto, – conclude con un sospiro che su le labbra le s’atteggia in un dolce mestissimo sorriso, – intanto la povera figliuola mia deve fingere di non esser lei, ma un’altra, e anch’io sono obbligata a fingermi pazza credendo che la mia figliuola sia ancora viva. Mi costa poco, grazie a Dio, perché è là, la mia figliuola, sana e piena di vita; la vedo, le parlo; ma sono condannata a non poter convivere con lei, e anche a vederla e a parlarle da lontano, perché egli possa credere, o fingere di credere che la mia figliuola, Dio liberi, è morta e che questa che ha con sé è una seconda moglie. Ma torno a dire, che importa se con questo siamo riusciti a ridare la pace a tutti e due? So che la mia figliuola è adorata, contenta; la vedo; le parlo; e mi rassegno per amore di lei e di lui a vivere così e a passare anche per pazza, signora mia, pazienza...
Dico, non vi sembra che a Valdana ci sia proprio da restare a bocca aperta, a guardarci tutti negli occhi, come insensati? A chi credere dei due? Chi è il pazzo? Dov’è la realtà? dove il fantasma?
Lo potrebbe dire la moglie del signor Ponza. Ma non c’è da fidarsi se, davanti a lui, costei dice d’esser seconda moglie; come non c’è da fidarsi se, davanti alla signora Frola, conferma d’esserne la figliuola. Si dovrebbe prenderla a parte e farle dire a quattr’occhi la verità. Non è possibile. Il signor Ponza – sia o no lui il pazzo – è realmente gelosissimo e non lascia vedere la moglie a nessuno. La tiene lassù, come in prigione, sotto chiave; e questo fatto è senza dubbio in favore della signora Frola; ma il signor Ponza dice che è costretto a far così, e che sua moglie stessa anzi glielo impone, per paura che la signora Frola non le entri in casa all’improvviso. Può essere una scusa. Sta anche di fatto che il signor Ponza non tiene neanche una serva in casa. Dice che lo fa per risparmio, obbligato com’è a pagar l’affitto di due case; e si sobbarca intanto a farsi da sé la spesa giornaliera, e la moglie, che a suo dire non è la figlia della signora Frola, si sobbarca anche lei per pietà di questa, cioè d’una povera vecchia che fu suocera di suo marito, a badare a tutte le faccende di casa, anche alle più umili, privandosi dell’ajuto di una serva. Sembra a tutti un po’ troppo. Ma è anche vero che questo stato di cose, se non con la pietà, può spiegarsi con la gelosia di lui.
Intanto, il signor Prefetto di Valdana s’è contentato della dichiarazione del signor Ponza. Ma certo l’aspetto e in gran parte la condotta di costui non depongono in suo favore, almeno per le signore di Valdana più propense tutte quante a prestar fede alla signora Frola. Questa, difatti, viene premurosa a mostrar loro le letterine affettuose che le cala giù col panierino la figliuola, e anche tant’altri privati documenti, a cui però il signor Ponza toglie ogni credito, dicendo che le sono stati rilasciati per confortare il pietoso inganno.
Certo è questo, a ogni modo: che dimostrano tutt’e due, l’uno per l’altra, un meraviglioso spirito di sacrifizio, commoventissimo; e che ciascuno ha per la presunta pazzia dell’altro la considerazione più squisitamente pietosa. Ragionano tutt’e due a meraviglia; tanto che a Valdana non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di dire che l’uno dei due era pazzo, se non l’avessero detto loro: il signor Ponza della signora Frola, e la signora Frola del signor Ponza.
La signora Frola va spesso a trovare il genero alla prefettura per aver da lui qualche consiglio, o lo aspetta all’uscita per farsi accompagnare in qualche compera: e spessissimo, dal canto suo, nelle ore libere e ogni sera il signor Ponza va a trovare la signora Frola nel quartierino mobigliato; e ogni qual volta per caso l’uno s’imbatte nell’altra per via, subito con la massima cordialità si mettono insieme; egli le dà la destra e, se stanca, le porge il braccio, e vanno così, insieme, tra il dispetto aggrondato e lo stupore e la costernazione della gente che li studia, li squadra, li spia e, niente!, non riesce ancora in nessun modo a comprendere quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma, dove la realtà.




Una giornata (1936)


Strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio. Di notte; senza nulla con me.
Non riesco a riavermi dallo sbalordimento. Ma ciò che più mi impressiona è che non mi trovo addosso alcun segno della violenza patita; non solo, ma che non ne ho neppure un’immagine, neppur l’ombra confusa d’un ricordo.
Mi trovo a terra, solo, nella tenebra d’una stazione deserta; e non so a chi rivolgermi per sapere che m’è accaduto, dove sono.
Ho solo intravisto un lanternino cieco, accorso per richiudere lo sportello del treno da cui sono stato espulso. Il treno è subito ripartito. È subito scomparso nell’interno della stazione quel lanternino, col riverbero vagellante del suo lume vano. Nello stordimento, non m’è nemmeno passato per il capo di corrergli dietro per domandare spiegazioni e far reclamo.
Ma reclamo di che?
Con infinito sgomento m’accorgo di non aver più idea d’essermi messo in viaggio su un treno. Non ricordo più affatto di dove sia partito, dove diretto; e se veramente, partendo, avessi con me qualche cosa. Mi pare nulla.
Nel vuoto di questa orribile incertezza, subitamente mi prende il terrore di quello spettrale lanternino cieco che s’è subito ritirato, senza fare alcun caso della mia espulsione dal treno. È dunque forse la cosa più normale che a questa stazione si scenda così?
Nel bujo, non riesco a discernerne il nome. La città mi è però certamente ignota. Sotto i primi squallidi barlumi dell’alba, sembra deserta. Nella vasta piazza livida davanti alla stazione c’è un fanale ancora acceso. Mi ci appresso; mi fermo e, non osando alzar gli occhi, atterrito come sono dall’eco che hanno fatto i miei passi nel silenzio, mi guardo le mani, me le osservo per un verso e per l’altro, le chiudo, le riapro, mi tasto con esse, mi cerco addosso, anche per sentire come son fatto, perché non posso più esser certo nemmeno di questo: ch’io realmente esista e che tutto questo sia vero.
Poco dopo, inoltrandomi fin nel centro della città, vedo che a ogni passo mi farebbero restare dallo stupore, se uno stupore più forte non mi vincesse nel vedere che tutti gli altri, pur simili a me, ci si muovono in mezzo senza punto badarci, come se per loro siano le cose più naturali e più solite. Mi sento come trascinare, ma anche qui senz’avvertire che mi si faccia violenza. Solo che io, dentro di me, ignaro di tutto, sono quasi da ogni parte ritenuto. Ma considero che, se non so neppur come, né di dove, né perché ci sia venuto, debbo aver torto io certamente e ragione tutti gli altri che, non solo pare lo sappiano, ma sappiano anche tutto quello che fanno sicuri di non sbagliare, senza la minima incertezza, così naturalmente persuasi a fare come fanno, che m’attirerei certo la maraviglia, la riprensione, fors’anche l’indignazione se, o per il loro aspetto o per qualche loro atto o espressione, mi mettessi a ridere o mi mostrassi stupito. Nel desiderio acutissimo di scoprire qualche cosa, senza farmene accorgere, debbo di continuo cancellarmi dagli occhi quella certa permalosità che di sfuggita tante volte nei loro occhi hanno i cani. Il torto è mio, il torto è mio, se non capisco nulla, se non riesco ancora a raccapezzarmi. Bisogna che mi sforzi a far le viste d’esserne anch’io persuaso e che m’ingegni di far come gli altri, per quanto mi manchi ogni criterio e ogni pratica nozione, anche di quelle cose che pajono più comuni e più facili.
Non so da che parte rifarmi, che via prendere, che cosa mettermi a fare.
Possibile però ch’io sia già tanto cresciuto, rimanendo sempre come un bambino e senz’aver fatto mai nulla? Avrò forse lavorato in sogno, non so come. Ma lavorato ho certo; lavorato sempre, e molto, molto. Pare che tutti lo sappiano, del resto, perché tanti si voltano a guardarmi e più d’uno anche mi saluta, senza ch’io lo conosca. Resto dapprima perplesso, se veramente il saluto sia rivolto a me; mi guardo accanto; mi guardo dietro. Mi avranno salutato per sbaglio? Ma no, salutano proprio me. Combatto, imbarazzato, con una certa vanità che vorrebbe e pur non riesce a illudersi, e vado innanzi come sospeso, senza potermi liberare da uno strano impaccio per una cosa – lo riconosco – veramente meschina: non sono sicuro dell’abito che ho addosso; mi sembra strano che sia mio; e ora mi nasce il dubbio che salutino quest’abito e non me. E io intanto con me, oltre a questo, non ho più altro!
Torno a cercarmi addosso. Una sorpresa. Nascosta nella tasca in petto della giacca tasto come una bustina di cuojo. La cavo fuori, quasi certo che non appartenga a me ma a quest’abito non mio. È davvero una vecchia bustina di cuojo, gialla scolorita slavata, quasi caduta nell’acqua di un ruscello o d’un pozzo e ripescata. La apro, o, piuttosto, ne stacco la parte appiccicata, e vi guardo dentro. Tra poche carte ripiegate, illeggibili per le macchie che l’acqua v’ha fatte diluendo l’inchiostro, trovo una piccola immagine sacra, ingiallita, di quelle che nelle chiese si regalano ai bambini e, attaccata ad essa quasi dello stesso formato e anch’essa sbiadita, una fotografia. La spiccico, la osservo. Oh! È la fotografia di una bellissima giovine, in costume da bagno, quasi nuda, con tanto vento nei capelli e le braccia levate vivacemente nell’atto di salutare. Ammirandola, pur con una certa pena, non so, quasi lontana, sento che mi viene da essa l’impressione, se non proprio la certezza, che il saluto di queste braccia, così vivacemente levate nel vento, sia rivolto a me. Ma per quanto mi sforzi, non arrivo a riconoscerla. È mai possibile che una donna così bella mi sia potuta sparire dalla memoria, portata via da tutto quel vento che le scompiglia la testa? Certo, in questa bustina di cuojo caduta un tempo nell’acqua, quest’immagine, accanto all’immagine sacra, ha il posto che si dà a una fidanzata.
Torno a cercare nella bustina e, più sconcertato che con piacere, nel dubbio che non m’appartenga, trovo in un ripostiglio segreto un grosso biglietto di banca, chi sa da quanto tempo lì riposto e dimenticato, ripiegato in quattro, tutto logoro e qua e là bucherellato sul dorso delle ripiegature già lise.
Sprovvisto come sono di tutto, potrò darmi ajuto con esso? Non so con qual forza di convinzione, l’immagine ritratta in quella piccola fotografia m’assicura che il biglietto è mio. Ma c’è da fidarsi d’una testolina così scompigliata dal vento? Mezzogiorno è già passato; casco dal languore: bisogna che prenda qualcosa, ed entro in una trattoria.
Con maraviglia, anche qui mi vedo accolto come un ospite di riguardo, molto gradito. Mi si indica una tavola apparecchiata e si scosta una seggiola per invitarmi a prender posto. Ma io son trattenuto da uno scrupolo. Fo cenno al padrone e, tirandolo con me in disparte, gli mostro il grosso biglietto logorato. Stupito, lui lo mira; pietosamente per lo stato in cui è ridotto, lo esamina; poi mi dice che senza dubbio è di gran valore ma ormai da molto tempo fuori di corso. Però non tema: presentato alla banca da uno come me, sarà certo accettato e cambiato in altra più spicciola moneta corrente.
Così dicendo il padrone della trattoria esce con me fuori dell’uscio di strada e m’indica l’edificio della banca lì presso.
Ci vado, e tutti anche in quella banca si mostrano lieti di farmi questo favore. Quel mio biglietto – mi dicono – è uno dei pochissimi non rientrati ancora alla banca, la quale da qualche tempo a questa parte non dà più corso se non a biglietti di piccolissimo taglio. Me ne danno tanti e poi tanti, che ne resto imbarazzato e quasi oppresso. Ho con me solo quella naufraga bustina di cuojo.
Ma mi esortano a non confondermi. C’è rimedio a tutto. Posso lasciare quel mio danaro in deposito alla banca, in conto corrente. Fingo d’aver compreso; mi metto in tasca qualcuno di quei biglietti e un libretto che mi dànno in sostituzione di tutti gli altri che lascio, e ritorno alla trattoria. Non vi trovo cibi per il mio gusto; temo di non poterli digerire. Ma già si dev’esser sparsa la voce ch’io, se non proprio ricco, non sono certo più povero; e infatti, uscendo dalla trattoria, trovo una automobile che m’aspetta e un autista che si leva con una mano il berretto e apre con l’altra lo sportello per farmi entrare. Io non so dove mi porti. Ma com’ho un’automobile, si vede che, senza saperlo, avrò anche una casa. Ma sì, una bellissima casa, antica, dove certo tanti prima di me hanno abitato e tanti dopo di me abiteranno. Sono proprio miei tutti questi mobili? Mi ci sento estraneo, come un intruso. Come questa mattina all’alba la città, ora anche questa casa mi sembra deserta; ho di nuovo paura dell’eco che i miei passi faranno, movendomi in tanto silenzio. D’inverno, fa sera prestissimo; ho freddo e mi sento stanco. Mi faccio coraggio; mi muovo; apro a caso uno degli usci; resto stupito di trovar la camera illuminata, la camera da letto, e, sul letto, lei, quella giovine del ritratto, viva, ancora con le due braccia nude vivacemente levate, ma questa volta per invitarmi ad accorrere a lei e per accogliermi tra esse, festante.
È un sogno?
Certo, come in un sogno, lei su quel letto, dopo la notte, la mattina all’alba, non c’è più. Nessuna traccia di lei. E il letto, che fu così caldo nella notte, è ora, a toccarlo, gelato, come una tomba. E c’è in tutta la casa quell’odore che cova nei luoghi che hanno preso la polvere, dove la vita è appassita da tempo, e quel senso d’uggiosa stanchezza che per sostenersi ha bisogno di ben regolate e utili abitudini. Io ne ho avuto sempre orrore. Voglio fuggire. Non è possibile che questa sia la mia casa. Questo è un incubo. Certo ho sognato uno dei sogni più assurdi. Quasi per averne la prova, vado a guardarmi a uno specchio appeso alla parete dirimpetto, e subito ho l’impressione d’annegare, atterrito, in uno smarrimento senza fine. Da quale remota lontananza i miei occhi, quelli che mi par d’avere avuti da bambino, guardano ora, sbarrati dal terrore, senza potersene persuadere, questo viso di vecchio? Io, già vecchio? Così subito? E com’è possibile?
Sento picchiare all’uscio. Ho un sussulto. M’annunziano che sono arrivati i miei figli.
I miei figli?
Mi pare spaventoso che da me siano potuti nascere figli. Ma quando? Li avrò avuti jeri. Jeri ero ancora giovane. È giusto che ora, da vecchio, li conosca.
Entrano, reggendo per mano bambini, nati da loro. Subito accorrono a sorreggermi; amorosamente mi rimproverano d’essermi levato di letto; premurosamente mi mettono a sedere, perché l’affanno mi cessi. Io, l’affanno? Ma sì, loro lo sanno bene che non posso più stare in piedi e che sto molto molto male.
Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano facendo in sogno uno scherzo.
Già finita la mia vita?
E mentre sto a osservarli, così tutti curvi attorno a me, maliziosamente, quasi non dovessi accorgermene, vedo spuntare nelle loro teste, proprio sotto i miei occhi, e crescere, crescere non pochi, non pochi capelli bianchi.
– Vedete, se non è uno scherzo? Già anche voi, i capelli bianchi.
E guardate, guardate quelli che or ora sono entrati da quell’uscio bambini: ecco, è bastato che si siano appressati alla mia poltrona: si son fatti grandi; e una, quella, è già una giovinetta che si vuol far largo per essere ammirata. Se il padre non la trattiene, mi si butta a sedere sulle ginocchia e mi cinge il collo con un braccio, posandomi sul petto la testina.
Mi vien l’impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc’anzi quei bambini, ora già così cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figliuoli.






Di sera, un geranio (1934)
S’è liberato nel sonno, non sa come: forse come quando s’affonda nell’acqua, che si ha la sensazione che poi il corpo riverrà su da sé, e su invece riviene solamente la sensazione, ombra galleggiante del corpo rimasto giú.
Dormiva, e non è piú nel suo corpo; non può dire che si sia svegliato; e in che cosa ora sia veramente, non sa; è come sospeso a galla nell’aria della sua camera chiusa.
Alienato dai sensi, ne serba piú che gli avvertimenti il ricordo, com’erano; non ancora lontani ma già staccati: là l’udito, dov’è un rumore anche minimo nella notte; qua la vista, dov’è appena un barlume; e le pareti, il soffitto (come di qua pare polveroso) e giú il pavimento col tappeto, e quell’uscio, e lo smemorato spavento di quel letto col piumino verde e le coperte giallognole, sotto le quali s’indovina un corpo che giace inerte; la testa calva, affondata sui guanciali scomposti; gli occhi chiusi e la bocca aperta tra i peli rossicci dei baffi e della barba, grossi peli, quasi metallici; un foro secco, nero; e un pelo delle sopracciglia così lungo, che se non lo tiene a posto, gli scende sull’occhio.
Lui, quello! Uno che non è piú. Uno a cui quel corpo pesava già tanto. E che fatica anche il respiro! Tutta la vita, ristretta in questa camera; e sentirsi a mano a mano mancar tutto, e tenersi in vita fissando un oggetto, questo o quello, con la paura d’addormentarsi. Difatti poi, nel sonno...
Come gli suonano strane, in quella camera, le ultime parole della vita:
– Ma lei è di parere che, nello stato in cui sono ridotto, sia da tentare un’operazione così rischiosa?
– Al punto in cui siamo, il rischio veramente...
– Non è il rischio. Dico se c’è qualche speranza.
– Ah, poca.
– E allora... –
La lampada rosea, sospesa in mezzo alla camera, è rimasta accesa invano.

Ma dopo tutto, ora s’è liberato, e prova per quel suo corpo là, piú che antipatia, rancore. Veramente non vide mai la ragione che gli altri dovessero riconoscere quell’immagine come la cosa piú sua.
Non era vero. Non è vero.
Lui non era quel suo corpo; c’era anzi così poco; era nella vita lui, nelle cose che pensava, che gli s’agitavano dentro, in tutto ciò che vedeva fuori senza piú vedere se stesso. Case strade cielo. Tutto il mondo.
Già, ma ora, senza piú il corpo, è questa pena ora, è questo sgomento del suo disgregarsi e diffondersi in ogni cosa, a cui, per tenersi, torna a aderire ma, aderendovi, la paura di nuovo, non d’addormentarsi, ma del suo svanire nella cosa che resta là per sé, senza piú lui: oggetto: orologio sul comodino, quadretto alla parete, lampada rosea sospesa in mezzo alla camera.
Lui è ora quelle cose; non piú com’erano, quando avevano ancora un senso per lui; quelle cose che per se stesse non hanno alcun senso e che ora dunque non sono piú niente per lui.
E questo è morire.
Il muro della villa. Ma come, n’è già fuori? La luna vi batte sopra; e giú è il giardino.
La vasca, grezza, è attaccata al muro di cinta. Il muro è tutto vestito di verde dalle roselline rampicanti.
L’acqua, nella vasca, piomba a stille. Ora è uno sbruffo di bolle. Ora è un filo di vetro, limpido, esile, immobile.
Come chiara quest’acqua nel cadere! Nella vasca diventa subito verde, appena caduta. E così esile il filo, così rade a volte le stille che a guardar nella vasca il denso volume d’acqua già caduta è come un’eternità di oceano.
A galla, tante foglioline bianche e verdi, appena ingiallite. E a fior d’acqua, la bocca del tubo di ferro dello scarico, che si berrebbe in silenzio il soverchio dell’acqua, se non fosse per queste foglioline che, attratte, vi fan ressa attorno. Il risucchio della bocca che s’ingorga è come un rimbrotto rauco a queste sciocche frettolose frettolose a cui par che tardi di sparire ingojate, come se non fosse bello nuotar lievi e così bianche sul cupo verde vitreo dell’acqua. Ma se sono cadute! se sono così lievi! E se ci sei tu, bocca di morte, che fai la misura!
Sparire.
Sorpresa che si fa di mano in mano piú grande, infinita: l’illusione dei sensi, già sparsi, che a poco a poco si svuota di cose che pareva ci fossero e che invece non c’erano; suoni, colori, non c’erano; tutto freddo, tutto muto; era niente; e la morte, questo niente della vita com’era. Quel verde... Ah come, all’alba, lungo una proda, volle esser erba lui, una volta, guardando i cespugli e respirando la fragranza di tutto quel verde così fresco e nuovo! Groviglio di bianche radici vive abbarbicate a succhiar l’umore della terra nera. Ah come la vita è di terra, e non vuol cielo, se non per dare respiro alla terra! Ma ora lui è come la fragranza di un’erba che si va sciogliendo in questo respiro, vapore ancora sensibile che si dirada e vanisce, ma senza finire, senz’aver piú nulla vicino; sì, forse un dolore; ma se può far tanto ancora di pensarlo, è già lontano, senza piú tempo, nella tristezza infinita d’una così vana eternità.
Una cosa, consistere ancora in una cosa, che sia pur quasi niente, una pietra. O anche un fiore che duri poco: ecco, questo geranio...
– Oh guarda giú, nel giardino, quel geranio rosso. Come s’accende! Perchè?
Di sera, qualche volta, nei giardini s’accende così, improvvisamente, qualche fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione.






La morte addosso (1922?)
– Ah, lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è... Ha perduto il treno?
– Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare davanti.
– Poteva corrergli dietro!
– Già. È da ridere, lo so. Bastava, santo Dio, che non avessi tutti quegl’impicci di pacchi, pacchetti, pacchettini... Piú carico d’un somaro! Ma le donne – commissioni... commissioni... – non la finiscono piú! Tre minuti, creda, appena sceso dalla vettura, per dispormi i nodini di tutti quei pacchetti alle dita: due pacchetti per ogni dito.
– Doveva esser bello... Sa che avrei fatto io? Li avrei lasciati nella vettura.
– E mia moglie? Ah sí! E le mie figliuole? E tutte le loro amiche?
– Strillare! Mi ci sarei spassato un mondo.
– Perché lei forse non sa che cosa diventano le donne in villeggiatura!
– Ma sí che lo so! Appunto perché lo so. Dicono tutte che non avranno bisogno di niente.
– Questo soltanto? Capaci anche di sostenere che ci vanno per risparmiare! Poi, appena arrivano in un paesello qua dei dintorni, piú brutto è, piú misero e lercio, e piú imbizzariscono a pararlo con tutte le loro galenterie piú vistose! Eh, le donne, caro signore! Ma del resto, è la loro professione... – «Se tu facessi una capatina in città, caro! Avrei proprio bisogno di questo... di quest’altro... e potresti anche, se non ti secca (caro, il se non ti secca)... e poi, giacché ci sei, passando di là...» – Ma come vuoi, cara mia, che in tre ore ti sbrighi tutte codeste faccende? – «Uh, ma che dici? Prendendo una vettura...» – Il guajo è, capisce?, che dovendo trattenermi tre ore sole, sono venuto senza le chiavi di casa.
– Oh bella! E perciò...
– Ho lasciato tutto quel monte di pacchi e pacchetti in deposito alla stazione; me ne sono andato a cenare in una trattoria, poi per farmi svaporar la stizza, a teatro. Si crepava dal caldo. All’uscita, dico, che faccio? Andarmene a dormire in un albergo? Sono già le dodici; alle quattro prendo il primo treno; per tre orette di sonno, non vale la spesa. E me ne sono venuto qua. Questo caffè non chiude, è vero?
– Non chiude, nossignore. E cosí, ha lasciato tutti quei pacchetti in deposito alla stazione?
– Perché? Non sono sicuri? Erano tutti ben legati...
– No no, non dico! Eh, ben legati, me l’immagino, con quell’arte speciale che mettono i giovani di negozio nell’involtare la roba venduta... Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rosea, levigata... ch’è per sé stessa un piacere a vederla... cosí liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza... La stendono sul banco e poi, con garbo disinvolto, vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben ripiegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l’altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina, come un di piú, per amore dell’arte; poi ripiegano da un lato e dall’altro a triangolo e cacciano sotto le due punte, allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legar l’involto, e legano cosí rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d’ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito.
– Eh, si vede che lei ha prestato molta attenzione ai giovani di negozio...
– lo? Caro signore, giornate intere ci passo. Sono capace di stare anche un’ora fermo a guardare dentro una bottega, attraverso la vetrina. Mi ci dimentico. Mi sembra d’essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta... quel bordatino... quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo averlo misurato sul metro, ha visto come fanno? se lo raccolgono a numero otto intorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d’incartarlo... Guardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l’involto o appeso al dito o in mano o sotto il braccio... li seguo con gli occhi, finché non li perdo di vista... immaginando... – uh, quante cose immagino! lei non può farsene un’idea. Ma mi serve. Mi serve questo.
– Le serve? Scusi... che cosa?
– Attaccarmi cosí, dico con l’immaginazione... attaccarmi alla vita, come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata. Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione... aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri... ma non della gente che conosco. No no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse... una nausea... Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello, ci vivo, ci respiro, fino ad avvertire.. sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia... Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo piú per ché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sí...
– Sí, perché... dico, dev’essere un bel piacere, questo che lei prova, immaginando tante cose...
– Piacere? io?
– Già... mi figuro...
– Ma che piacere! Mi dica un po’. È stato mai a consulto da qualche medico bravo?
– Io no, perché? Non sono mica malato!
– No no! Glielo domando per sapere se ha mai veduto in casa di questi medici bravi la sala dove i clienti stanno ad aspettare il loro turno per esser visitati.
– Ah, sí... mi toccò una volta accompagnare una mia figliuola che soffriva di nervi.
– Bene. Non voglio sapere. Dico, quelle sale... Ci ha fatto attenzione? Quei divani di stoffa scura, di foggia antica... quelle seggiole imbottite, spesso scompagne... quelle poltroncine... È roba comprata di combinazione, roba di rivendita, messa lí per i clienti; non appartiene mica alla casa. Il signor dottore ha per sé, per le amiche della sua signora, un ben altro salotto, ricco, splendido. Chi sa come striderebbe qualche seggiola, qualche poltroncina di quel salotto portata qua nella sala dei clienti, a cui basta quell’arredo cosí, alla buona. Vorrei sapere se lei, quando andò per la sua figliuola, guardò attentamente la poltrona o la seggiola su cui stette seduto, aspettando.
– Io no, veramente...
– Eh già, perché lei non era malato... Ma neanche i malati spesso ci badano, compresi come sono del loro male. Eppure, quante volte certuni stan lí intenti a guardarsi il dito che fa segni vani sul bracciuolo lustro di quella poltrona su cui stan seduti! Pensano e non vedono. Ma che effetto fa, quando poi si esce dalla visita, riattraversando la sala, il riveder la seggiola su cui poc’anzi, in attesa della sentenza sul nostro male ancora ignoto, stavamo seduti! Ritrovarla occupata da un altro cliente, anch’esso col suo male nascosto; o là, vuota, impassibile, in attesa che un altro qualsiasi venga a occuparla... Ma che dicevamo? Ah, già... il piacere dell’immaginazione... Chi sa perché, ho pensato subito a una seggiola di queste sale di melici, dove i clienti stanno in attesa del consulto...
 – Già... veramente..
– Non capisce? Neanche io. Ma è che certi richiami di immagini, tra loro lontane, sono cosí particolari a ciascuno di noi, e determinati da ragioni ed esperienze cosí singolari, che l’uno non intenderebbe piú l’altro se, parlando, non ci vietassimo di farne uso. Niente di piú illogico, spesso, di queste analogie. Ma la relazione, forse, può esser questa, guardi: – Avrebbero piacere quelle seggiole d’immaginare chi sia il cliente che viene a seder su loro in attesa del consulto? che male covi dentro? dove andrà, che farà dopo la visita? – Nessun piacere. E cosí io: nessuno! Vengono tanti clienti, ed esse sono là, povere seggiole, per essere occupate. Ebbene, è anche un’occupazione simile la mia. Ora mi occupa questo, ora quello. In questo momento mi sta occupando lei, e creda che non provo nessun piacere del treno che ha perduto, della famiglia che l’aspetta in villeggiatura, di tutti i fastidii che posso supporre in lei...
– Uh, tanti, sa!
– Ringrazii Dio, se sono fastidii soltanto. C’è chi ha di peggio, caro signore. Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma cosí, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi... anzi... per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla. E questo è da dimostrare bene, sa? con prove ed esempii continui a noi stessi, implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la vi viviamo, è cosí sempre ingorda di sé stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua... a queste noje... a tante stupide illusioni... insulse occupazioni... Sí sí. Questa che ora qua è una sciocchezza... questa che ora qua è una noja... e arrivo finanche a dire questa che ora e per noi una sventura, una vera sventura... sissignori, a distanza di quattro, cinque, dieci anni, chi sa che sapore acquisterà... che gusto, queste lagrime... E la vita, perdio, al solo pensiero di perderla... specialmente quando si sa che è questione di giorni... – Ecco... vede là? dico là, a quel cantone... vede quell’ombra malinconica di donna? Ecco, s’è nascosta!
– Come? Chi... chi è che...? – Non l’ha vista? S’è nascosta...
– Una donna?
– Mia moglie, già...
– Ah! la sua signora?
– Mi sorveglia da lontano. E mi verrebbe, creda, d’andarla a prendere a calci. Ma sarebbe inutile. È come una di quelle cagne sperdute, ostinate, che piú lei le prendi a calci, e piú le si attaccano alle calcagna. Ciò che quella donna sta soffrendo per me, lei non se lo può immaginare Non mangia, non dorme piú... Mi viene appresso, giorno e notte, cosí... a distanza... E si curasse almeno di spolverarsi quella ciabatta che tiene in capo, gli abiti... Non pare piú una donna, ma uno strofinaccio. Le si sono impolverate per sempre anche i capelli, qua sulle tempie; ed ha appena trentaquattro anni. Mi fa una stizza, che lei non può credere. Le salto addosso, certe volte, le grido in faccia «Stupida!» scrollandola. Si piglia tutto. Resta lí a guardarmi con certi occhi... con certi occhi che, le giuro, mi fa venire qua alle dita una selvaggia voglia di strozzarla Niente. Aspetta che mi allontani per rimettersi a seguirmi – Ecco, guardi... sporge di nuovo il capo dal cantone...
– Povera signora...
– Ma che povera signora! Vorrebbe, capisce? ch’io me ne stessi a casa, mi mettessi là fermo placido, come vuol lei, a prendermi tutte le sue piú amorose e sviscerate cure... a goder dell’ordine perfetto di tutte le stanze, della lindura di tutti i mobili, di quel silenzio di specchio che c’era prima in casa mia, misurato dal tic-tac della pendola nel salotto da pranzo... Questo vorrebbe! Io domando ora a lei, per farle intendere l’assurdità... ma no, che dico l’assurdità! la màcabra ferocia di questa pretesa, le domando se crede possibile che le case d’Avezzano, le case di Messina, sapendo del terremoto che di lí a poco le avrebbe sconquassate, avrebbero potuto starsene lí tranquille, sotto la luna, ordinate in fila lungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della commissione edilizia municipale? Case, perdio, di pietra e travi, se ne sarebbero scappate! Immagini i cittadini d’Avezzano, cittadini di Messina, spogliarsi tranquilli per mettersi a letto, ripiegare gli abiti, metter le scarpe fuori dell’uscio, e cacciandosi sotto le coperte godere del candor fresco delle lenzuola di bucato, con la coscienza che fra poche ore sarebbero morti... Le sembra possibile?
– Ma forse la sua signora...
– Mi lasci dire! Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegl’insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso... Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese, le dice: «Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso». E con quelle due dita protese, gliela piglia e gliela butta via... Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano intanto tranquilli a ciò che faranno domani o doman l’altro. Ora io, caro signore, ecco... venga qua... qua, sotto questo lampione... venga... le faccio vedere una cosa... Guardi qua, sotto questo baffo... qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo... piú dolce d’una caramella: Epitelioma, si chiama. Pronunzii, pronunzii... sentirà che dolcezza: epiteli-o-ma... La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca e m’ha detto: «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!». Ora m dica lei, se, con questo fiore in bocca, io me ne posso stare a casa tranquillo e alieno, come quella disgraziata vorrebbe. Le grido: «Ah sí, e vuoi che ti baci?» – «Sí, baciami!» – Ma sa che ha fatto? Con uno spillo, l’altra settimana s’è fatto uno sgraffio qua, sul labbro, e poi m’ha preso la testa: mi voleva baciare... baciare in bocca... Perché dice che vuol morire con me. È pazza. A casa io non ci sto. Ho bisogno di starmene dietro le vetrine delle botteghe, io ad ammirare la bravura dei giovani di negozio. Perché lei lo capisce, se mi si fa un momento di vuoto dentro.. lei lo capisce, posso anche ammazzare come niente tutta 1a vita in uno che non conosco... cavare la rivoltella e ammazzare uno che, come lei, per disgrazia, abbia perduto il treno... No no, non tema, caro signore: io scherzo! – Me ne vado. Ammazzerei me, se mai... Ma ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche... Come le mangia lei? cor tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà: si premono con due dita, per lungo, come due labbra succhiose... Ah che delizia! – Mi ossequi la sua egregia signora e anche le sue figliuole in villeggiatura. Me le immagino vestite di bianco e celeste, in un bel prato verde in ombra... E mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figuro che il paesello disterà un poco dalla stazione... All’alba lei può far la strada a piedi. Il primo cespuglietto d’erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti fili saranno tanti giorni ancora io vivrò. Ma lo scelga bello grosso, mi raccomando. Buona notte, caro signore.









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